Non sono settimane facili per il premier giapponese Shinzō Abe riconfermato a dicembre 2014. Da una parte c’è il dibattito sulla questione dell’uso delle forze militari che è tornato alla ribalta dopo la decapitazione degli ostaggi giapponesi da parte dell’ISIS, dall’altra c’è il tema di una riforma della Costituzione, voluta dagli americani nel 1947, che all’articolo 9 sancisce: «Il Popolo Giapponese rinuncia per sempre alla guerra e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per la risoluzione delle dispute internazionali».
Secondo gli osservatori di politica economica internazionale, Abe pensa a una revisione costituzionale entro la fine del 2018 e avrebbe trovato una sponda in America. La ragione è che Barack Obama vorrebbe contenere lo strapotere cinese nell’area asiatica, dando a Tokyo un ruolo politico di primo piano. E le grandi manovre sono già cominciate. In seguito al vertice del 28 aprile tra Obama ed Abe è stata sancita una maggiore cooperazione militare tra USA e Giappone, specialmente in tema di sicurezza marittima nell’area asiatica, ma anche nella difesa contro attacchi missilistici ed informatici.
Il fallimento del Quantitative easing nipponico. Ma c’è di più. Secondo i calcoli dell’International Institute for Strategic Studies, il Giappone è già oggi il Paese con la nona spesa militare al mondo: circa 48 milioni di dollari l’anno, pari a quasi l’1% del suo Prodotto interno lordo (Pil). Con un investimento di queste proporzioni, ci si chiede per quanto tempo ancora il Giappone potrà ancora restare una potenza globale pacifista. E sono in molti a credere che dopo 70 anni ci sarà la svolta.
Un indizio in questa direzione è stato il battesimo della Izumo, la più grande portaerei giapponese dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con una capienza tale da poter ospitare sino a 14 elicotteri e quasi 1.000 uomini tra equipaggio e truppe di sbarco. Insomma, tutto meno che una scelta pacifista.
Su questo scenario politico si innesta poi quello economico che non è incoraggiante per Abe. La ragione la si trova nel Bollettino della Banca Centrale Europea (Bce) di aprile che ha analizzato in maniera chirurgica il fallimento del Quantitative easing alla nipponica.
Il crollo dello yen e il Pil che non riparte. Nel bollettino economico di aprile dell’istituto guidato da Mario Draghi c’è l’analisi dell’andamento delle esportazioni nette giapponesi dal 2012 al 2015. Il risultato? Una bocciatura totale del Quantitative e qualitative easing (QQE) messo in atto da Abe che ha portato al deprezzamento del 15% dello Yen e non ha fatto uscire l’economia dalla stagnazione. «Negli ultimi due anni e mezzo il paese ha registrato in termini reali una crescita piuttosto modesta delle esportazioni e una dinamica relativamente robusta delle importazioni» si legge nel Bollettino Bce. «Dalla fine del 2012 il contributo della domanda estera alla crescita del Pil è stato, in media, pressoché nullo». Insomma, il contrario di quanto avrebbe dovuto accadere.
Ma sulla Borsa il QQE ha funzionato e i gestori ci credono ancora. La buona notizia è che, invece, in Borsa la strategia di Abe ha funzionato eccome. La prova è l’andamento dei fondi azionari Giappone che investono in società a grande capitalizzazione (Categoria Morningstar: Azionari Giappone large cap) che hanno spinto sull’export, grazie alla svalutazione dello yen.
Idee di investimento
I primi tre in classifica a un anno hanno un rendimento di tutto rispetto:
- Vontobel fund japanese equity (+53,3%)
- Pictet Japanese equity selection (+52,6%)
- M&G Japan denonimato in euro (51,92%).
E il risultato è analogo anche sui i migliori fondi che investono in small e mid cap giapponesi (Categoria Morningstar Azionari Giappone Small/Mid Cap) con:
- Pine Bridge Global Fund che a un anno rende il 54,3%
- Aberdeen Global Japanese smaller che guadagna il 53,2%.
Corsa finita? Per il consensus dei gestori anche se la crescita del Paese per il 2015 è prevista ancora “anemica”, chi investe può sperare in ritorni a due cifre in Borsa.
Note
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